War Poets

Intervista a Paola Tonussi

Thomas Hardy – Laurence Binyon – Charles Sorley Edward Thomas – Harold Monro – Siegfried Sassoon – Rupert Brooke – Francis Ledwidge – Julian Grenfell – Ivor Gurney – Isaac Rosenberg – Richard Aldington – Wilfred Owen – Robert Graves

War Poets è un volume edito da Ares Edizioni, curato dalla studiosa anglista Paola Tonussi, la quale riesce – con la sua impareggiabile eleganza stilistica – a dar voce ad un’intera generazione perduta. L’antologia raccogli gli scritti di quattordici poeti britannici (sopra elencati), attivi durante il Primo conflitto mondiale. Autori che seppero trasformare i loro demoni in un magma incandescente, seguendo una scintilla creativa che non li avrebbe abbandonati neanche al termine della Guerra.

Poesie, appunti, lettere ai famigliari, che restituiscono un’immagina autentica e senza fronzoli, all’interno di un volume superbo e commovente, degno della penna di Tonussi che da tempo sorprende i lettori con capolavori dettagliati ed eterogenei: dalle lettere veneziane di George G. Byron, ad una biografia dedicata ad Emily Brontë; ad un parallelo tra la poetica di Dante e quella di T.S. Eliot.

La recente silloge è al centro della nostra intervista.

Come hai scelto i poeti da includere?

I War Poets sono moltissimi e molto diversi tra loro, per stile e per la poesia che scrivono, per età e per provenienza sociale: la scelta è dunque stata fatta con l’editore, Ares di Milano.

Molti tra i war poets che abbiamo incluso nella raccolta erano già scrittori e poeti e la guerra non ha fatto che ‘indirizzarli’ verso un tema in particolare, altri invece hanno iniziato a scrivere proprio sulla spinta di quel che avevano vissuto in guerra.

Il criterio è stato dunque scegliere personalità e stili diversi che, pur nella brevità di una singola raccolta, potessero ricreare il mosaico poetico forgiato sul dolore e la tragedia: l’esaltazione patriottica con Rupert Brooke e Julian Grenfell, in parte nel primo Hardy e negli esordi di Ivor Gurney, quindi la disillusione per la guerra ‘vera’ combattuta nelle trincee con Charles Sorley o Richard Aldington, la pietà per i caduti nei versi di Laurence Binyon, l’amarezza per le vite sprecate, i giovani mandati a morire “come bestiame” in Owen.

Infine la poesia di protesta e rivolta contro l’insensatezza di una carneficina che si poteva e si doveva fermare, secondo questi autori, con Siegfried Sassoon e Isaac Rosenberg.

Le poesie, pur avendo un forte filo conduttore, sono estremamente varie. Pensi ci siano tematiche ricorrenti nei versi che hai tradotto ed esaminato?

Penso di sì.

Se partiamo dalle parole di Owen, “Il mio tema è la guerra, e la pietà della guerra”, ciascuno di loro usa lingua, immagini e stile personali, ma alcuni toccano temi simili, e non potrebbe che essere così: la trincea è la stessa per tutti loro, le esperienze vissute sono le stesse.

Ricorrono in questi versi i momenti fondamentali del giorno, l’alba e il tramonto, istanti cruciali per i soldati. Il senso della vicinanza alla natura si ritrova in Aldington, in Binyon e altri: “Quant’è inutile tutto questo clamore, / Questa distruzione e contesa … / notte dopo notte la luna sale / Superba, perfetta…”. L’immutabilità del mondo naturale per loro è, anche per un attimo, motivo di conforto e speranza.

Per contro Monroe o Rosenberg elaborano immagini naturali che ispirano disgusto: non più “nostra madre”, la loro è una natura corrotta, una collezione di scene di disfacimento e di morte. La stessa brutale distruzione che i ragazzi-poeti stanno vedendo intorno a sé “nei dilaniati campi di Francia”, scrive Rosenberg. La putrefazione dei corpi, per la follia della mente: “Così con uno schianto svoltammo la curva / Sentimmo il suo debole lamento, / E le nostre ruote solcarono il suo volto morto”, dice in un’altra lirica.

É l’orrore che vogliono testimoniare con tanta crudezza: per chi sta a casa, per chi vuol continuare la guerra e non l’ha mai conosciuta.

Come sei approdata allo studio dei War Poets?

Il mio campo d’interesse letterario è sempre stato, in particolare e con particolare passione, il periodo che va dall’Ottocento al Novecento, fino all’incirca alla Seconda guerra mondiale.

Avevo incontrato questi poeti molti anni fa, accanto agli scrittori che hanno narrato la guerra in prosa, dunque in racconti e romanzi.

Ma quando l’editore mi ha proposto una raccolta di poesia di guerra, ho colto l’occasione per riprendere il filo interrotto con i war poets e approfondire quelli di cui avevo letto i versi, conoscerne altri che non avevo mai affrontato.

Uno studio in cui mi sono immersa con entusiasmo crescente: i ragazzi-soldati mi hanno indicato un cammino di dolore, meraviglia, commozione continua. 

Citi il canone imagista secondo il quale, una poesia dovrebbe rimanere “aperta” ed instaurare un dialogo d’elezione con il lettore. Pensi sia possibile anche in questi casi, con la Guerra come protagonista?

Con limiti molto ampi, credo di sì.

É impossibile leggere i versi di questi poeti, leggere le loro biografie, seguirli nei vari momenti della loro vita umana e artistica senza parteciparvi, entrare nella dinamica della loro poesia senza ammirarli. Per la bellezza di quanto scrivono e per come la loro poesia è stata scritta, i minuti strappati alla paura tra un bombardamento e l’altro, un momento di quiete cercato dopo un attacco con il gas o un’offensiva nemica.

É indimenticabile Owen, che fa dire al suo protagonista “io sono il nemico che hai ucciso” in un oltre-vita vago eppure molto sensoriale, molto ‘presente’, incancellabile l’esperienza di assistere agli “strani inferni” che devastano la mente degli uomini in Gurney o d’immaginare sfilare “i milioni di morti senza voce” di Sorley.

Si tratta di una poesia che in qualche modo attacca frontalmente il lettore, e non si fa dimenticare. Troppo alto il prezzo pagato dagli autori, molti poco più che ragazzi, per trasmetterla a noi.

In questo senso penso che sia poesia “aperta”.

Inoltre, la guerra è ancora tra noi, in Europa. Per fortuna non la stiamo vivendo come loro, ma i suoi echi ci raggiungono con violenza e da troppo tempo.

Negli ultimi anni hai pubblicato lavori di ricerca eterogenei ed affascinanti. Posso chiederti a cosa ti stai dedicando, al momento?

Ti ringrazio, anzi, di chiederlo. Mi sto dedicando a uno di questi poeti, ma per scaramanzia mi permetterai di non rivelarlo, al momento, dandoci appuntamento in un futuro molto vicino.

Però posso dirti, con le sue parole, che “lo splendore continua”.

Paola Tonussi è studiosa di letteratura anglosassone dell’Ottocento e del Novecento. Ha insegnato alla scuola superiore, quindi è stata docente a contratto presso la SSIS del Veneto/Centro di Eccellenza di Ca’ Foscari. Ha scritto su Byron, Virginia Woolf, Dickens, Janet Frame, Emily Dickinson, le sorelle Brontë, Eliot, Spender e Auden. Nel 2013 l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia le ha conferito il Premio Vassalini. La sua biografia Emily Brontë (2019) è stata finalista Premio Comisso 2020. Collabora a varie riviste, tra cui l’internazionale Brontë Studies.

Emanuela Borgatta Dunnett