La Casa dell’Oblio – Galileo Chini (1933)

Nella villa di Settignano per compiacere a un de’ miei spiriti all’ora dominante io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani cavalli e belli arredi.

Nel 1898, Gabriele d’Annunzio diviene inquilino di una bella villa a Settignano (FI), che tanta parte avrebbe avuto nel suo privato e nella sua arte.

La dimora gli era stata consigliata da Benigno Palmerio (successivamente autore di: Con d’Annunzio alla Capponcina), amico abruzzese che presto ne diviene il tuttofare. D’Annunzio richiede di entrare nella sua nuova casa, trovandola spoglia per arredarla a proprio gusto e sarà, proprio, l’interno di quelle mura a veder nascere la parte più cospicua del suo lascito letterario.

Durante il periodo fiorentino, Eleonora Duse vive anni indimenticabili e tormentati nelle vicinanze del Vate, occupando la vicina dimora, ribattezzata Porziuncola. L’idillio, tuttavia, viene bruscamente interrotto dal Poeta che le preferisce Alessandra di Rudinì, ospite della Capponcina dal 1903 al 1907.

La Duse avrà, in seguito, modo di ricordare il loro rapporto in questi termini: Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto perché lo ho amato.

Il loro vissuto, più volte al centro di studi accademici, analisi di carteggi e romanzi, trova singolare ribalta, in una tela di Galileo Chini (Firenze 1873-1956), in cui ritrae il buen retiro che l’attrice sceglie per sanare le ferite, in Versilia. Il dipinto riporta, in modo del tutto inusuale per il pittore simbolista, una precisazione a matita sul retro, tramite la quale esplica il turbolento momento relativo alla fine dell’amore tra la Divina e d’Annunzio, tracciando anche una breve mappa dell’area in cui è ubicata l’abitazione.

Il quadro raffigura, infatti, la così detta Casa Gialla, vista da un’angolazione che – idealmente – vuole ricordare quella goduta da chi si ritrovi ad ammirarla di sottecchi. Quasi un dialogo silenzioso, struggente e malinconico tra un amore che fu, osservato da un altro, appena sbocciato.

L’opera è estremamente evocativa ed il volubile cuore del Vate sembra essere racchiuso da Chini nell’oleandro in fiore, il quale – con un colpo da maestro e giocando di chiaroscuri – è posto in primo piano, ma all’ombra; mentre la dimora della Duse è pienamente colpita dalla luce pomeridiana.

Chini prende le parti dell’attrice e non approva la scelta del Poeta? Così parrebbe… si pensi anche alla netta linea di separazione marcata dalla staccionata terminante con un cancello lasciato (volutamente? Inconsciamente?) socchiuso.

L’apparente quiete nella pennellata di Chini, tuttavia, altro non è che un inganno per osservatori distratti. Ogni dettaglio – invece – a partire dal titolo: La Casa dell’Oblio (1933), è simbolo, ogni ombra indizio della passione perduta, ma destinata all’eternità.