ULTIMO D’ANNUNZIO

Intervista ad Alfredo Marasti

ULTIMO D’ANNUNZIO di Alfredo Marasti

Alfredo Marasti nasce a Pescia, nel 1990. Autore di musiche e testi, nonché scrittore ed appassionato di cinema è – altresì – vincitore di numerosi premi musicali, tra i quali: il Premio De André ed il Premio Miglior Testo alla XXIV edizione del Festival Musicultura.

Da diversi anni, grazie alla realizzazione di un film auto-prodotto ed alla curiosità che ne è conseguita per Gabriele d’Annunzio, si è avvicinato al luogo dannunziano per eccellenza: Il Vittoriale degli Italiani.

Alla dimora di Gardone Riviera ha dedicato un intenso lavoro discografico, che ci illustra nella nostra intervista, insieme ai progetti in cantiere.

Ci presenti l’opera, partendo dalla sua genesi? Com’è nata e perché hai scelto un soggetto così affascinante ed enigmatico?

Come tanti non conoscevo d’Annunzio se non tramite quelle due o tre poesie che passano dalle antologie scolastiche: La pioggia nel pineto o I pastori, nulla a cui avessi dato grande importanza. Poi c’è stata l’unione di una serie di circostanze: nel mio primo e auto-prodotto film del 2013, che si chiamava Ivardùsh – Fascisti di oggi, interpretavo (male) l’ideologo strampalato di un movimento neofascista; una specie di dandy che, almeno nelle intenzioni, risultava da un incrocio grottesco tra d’Annunzio e Carmelo Bene. Documentandomi su entrambi, facilmente mi sono imbattuto in Giordano Bruno Guerri e nei suoi libri, specialmente La mia vita carnale, dove finalmente ho incontrato un d’Annunzio quotidiano e concreto, non solo letterario. È più o meno così che mi sono avvicinato al “soggetto”, ma è quasi più importante parlare del luogo.

Il Vittoriale è il coprotagonista del tuo album. Qual è il tuo rapporto con un luogo quasi mistico che, da sempre, affascina il visitatore, ripensando al suo anfitrione?

In effetti ho conosciuto il Vittoriale prima di conoscere il suo celebre abitante. Tutto è cominciato con un paio di visite che ci ho fattoquando ero ancora un bimbo; i miei genitori, dopo avermi fatto passare una giornata – ebbene sì – a Gardaland, aggiungevano la tappa di “turismo culturale”. Per l’appunto non sapevo nulla di d’Annunzio, ma mi restarono impresse le stanze della Prioria, buie e piene di specchi, lampade arancioni e oggetti strani, le vallette labirintiche e la nave Puglia incastrata nella collina; un luogo strano, quasi incantato, ma a cui associavo anche vibrazioni negative, soprattutto perché appena fuori dall’ingresso avevo visto delle bancarelle con teschi, pugnali, busti mussoliniani e altra chincaglieria fascista.

Quando ci sono tornato, dopo molti anni e molti libri, le bancarelle – grazie alla nuova gestione – erano scomparse, mentre l’atmosfera era rimasta affascinante e misteriosa. Da tempo mi girava in testa l’idea di fare un concept album alla vecchia maniera, in cui ogni canzone fosse in qualche modo legata alla successiva: mi viene l’idea di seguire la successione di stanze allegoriche della Prioria, ognuna delle quali può servire a raccontare un aspetto diverso del personaggio. Decido anche di evitare la riproposizione letterale dei testi dannunziani – pur non mancando di riprenderne singoli stralci e suggestioni – ma di lavorare su un ritratto inedito, non “monocentrico” ma spezzato in vari punti di vista: d’Annunzio visto da Luisa Baccara, da Eleonora Duse, da sé stesso, da noi contemporanei.

Tutto questo accadeva più o meno nel 2016: le canzoni c’erano quasi tutte, io registro una versione “demo” con gli arrangiamenti già strutturati, dopodiché mi blocco e Ultimo D’Annunzio resta fermo lì per diversi anni.

Ero abbastanza in crisi sia perché lavoravo, in parallelo, su un progetto completamente diverso e molto più improvvisato (Lolita Moon, co-arrangiato con Cassandra Raffaele) sia perché mancavo di qualsiasi copertura a livello di etichetta e di produzione: non mi sembrava sensato far uscire un disco del genere che per di più, ne ero certo, i non addetti ai lavori – cioè tutti – avrebbero trovato pressoché incomprensibile. Diverso sarebbe stato il discorso se avessi potuto realizzare, come sognavo, un film “a fianco” del disco; idea che in quel momento, per l’appunto, mi sembrava impossibile da realizzare.

Finalmente, durante i lunghi mesi di pandemia, sono riuscito a riprendere il progetto, ho aggiunto brani nuovi e l’ho presentato a Salvatore Papotto e Claudia Erba (La Stanza Nascosta Records), con cui avevo appena pubblicato l’album Altri tempi (2020), trovandoli entusiasti; contestualmente ho chiesto al Presidente Giordano Bruno Guerri, cui avevo già presentato la “bozza” del disco nel 2016, l’autorizzazione per realizzare le riprese al Vittoriale, che lui con grande cortesia ha concesso – anche se solo per gli esterni. A quel punto è partito tutto e l’album ha visto la luce.

Nel costruire la scaletta definitiva mi premevano soprattutto due aspetti: primo, evitare le generalizzazioni che non dicono nulla. Ad esempio, “D’Annunzio e le donne”; bisogna capire quali donne, quali storie, differenziare caso per caso, anche per non cadere nel “dannunzianesimo” più trito. Secondo, raccontare quanto d’Annunzio e la sua storia siano ancora attuali, in aperta opposizione a quel complesso di atteggiamenti che oggi viene semplicisticamente definito cancel culture e che in sostanza prevede di cancellare o censurare con un colpo di spugna certi aspetti del passato, specialmente se scomodi. Invece io sono convinto che il passato abbia sempre qualcosa da insegnarci, specialmente nei suoi aspetti più dissonanti.

Il tuo album è accompagnato da materiale video ed iconografico estremamente raffinato. Come hai lavorato affinché diventassero un unicum?

Di fatto alcuni brani del disco, senza la contestualizzazione iconografica e storica, sono comprensibili solo in parte: per esempio, quando nel secondo brano (La Stanza della Musica) il cantato dice «adesso che il Quartetto è andato via», ci si riferisce al quartetto d’archi che suonava realmente al Vittoriale. Quartetto che infatti si sente suonare alla fine del primo brano, Al visitatore, dunque, è effettivamente «appena andato via» anche per gli ascoltatori.

Oppure prendiamo proprio Al visitatore, canzone introduttiva: corrisponde alla Stanza del Mascheraio, effettivamente la prima stanza presentata ai visitatori dopo l’ingresso, così chiamata dai versi sopra lo specchio del camino, composti in occasione della visita di Mussolini al Vittoriale, nel maggio del 1925: «Al visitatore: Teco porti lo specchio di Narciso? / Questo è piombato vetro, o mascheraio. / Aggiusta le tue maschere al tuo viso / ma pensa che sei vetro contro acciaio».

Nella realtà fu poco più di una scaramuccia tra il dittatore e un d’Annunzio ormai in declino, ma il testo mi sembrava talmente potente e incisivo che l’ho tradotto, tramite il videoclip, in immagini concrete: l’incontro con lo specchio coincide in qualche modo con il “giudizio” del tempo e della Storia, così che d’Annunzio resiste, mentre Mussolini fa un po’ la fine di Dorian Gray. Inoltre d’Annunzio è, paradossalmente, l’unico “personaggio” che compare in forma realistica, seppure come effetto speciale, nello specchio; Narciso è una figura semi-umana ma priva di un vero volto dietro le maschere, mentre Mussolini non esiste proprio, è solo un fantoccio che alla prova del tempo si squaglia miseramente.

Quanto al video, che poi è una trilogia filmica composta tra tre videoclip fruibili singolarmente ma strettamente legati tra loro, devo citare i miei preziosi collaboratori: Chris Mazzoncini con me alla regia, Aldo Masini alla seconda camera, Sara Bertolucci che me li ha fatti conoscere e da allora è nota come la “produttrice” del film, Laura Panelli al make-up e Marta Coveri al reparto costumi per i primi due episodi (per il terzo, Da dietro il velo, si è resa necessaria una scelta diversa e abbiamo fatto ricorso a Falpala’ Costumi, sartoria teatrale a Montichiari).

Di fronte all’ipertrofia simbolica che d’Annunzio si porta dietro rischiavamo di rimanere schiacciati tra due alternative: o subirla passivi, cedendo a una celebrazione pomposa e sterile, o di contro abbassarla, relativizzarla, inseguendo una visione “realistica” e demistificante che, oltre a interessarmi ben poco, non mi avrebbe permesso di affrontare quello che io ritengo l’aspetto più attuale e felicemente ambivalente del personaggio: vincere la malinconia e la paura della morte «facendo della propria vita un’opera d’arte», cioè costruendosi un mito, un’illusione, un palco su cui recitare, finendo per crederci. Io credo sia un po’ quello che facciamo tutti, anche se alla fine arriva la disillusione; come avvenne anche per d’Annunzio, che ce la descrive in un componimento di valore incommensurabile, nichilista, di un pessimismo definitivo: Qui giacciono i miei cani

Dunque non ci siamo fatti schiacciare, ma abbiamo scelto di fare questo “ritratto in tre atti” accostando entrambe le prospettive, lirica e prosaica: non a caso nella sequenza di apertura vediamo inquadrati il pilo del Piave, le arcate, i preziosi stemmi sulla facciata della Prioria ma anche, più banalmente, i piccioni che se ne stanno indifferenti sul tetto.

Chris Mazzoncini ha preso l’insieme delle mie suggestioni, collocate in quel colosso scenografico che è il Vittoriale, e tramite il montaggio le ha tradotte in un flusso continuo di frammenti, talvolta velocissimo, così che il senso complessivo del racconto, per quanto sia comunque leggibile, sfugge a ogni generalizzazione semplicistica, ci investe come la pioggia di vetri dello specchio infranto; la magniloquenza e la bellezza del Vittoriale e del suo Parco non scompaiono, ma risultano costantemente rotte, incrinate, sporcate da qualcosa. Aldo Masini a sua volta ha sperimentato con le immagini a infrarosso, i dettagli e le inquadrature di ambientazione; entrambi hanno un personale sguardo stilistico e l’hanno espresso con scelte molto particolari – completamente estranee ai modelli standardizzati del videomaking – su cui non mi posso soffermare ma che ognuno può scoprire cercando e scoprendo sul web gli altri loro lavori.

Io ho curato soprattutto la struttura narrativa, facendo sì – più o meno premeditatamente – che il teatro e la teatralità diventassero il filo rosso della trilogia. Il primo atto esprime la teatralità esasperata e barocca, quanto inconsistente, del Narciso/Duce, il terzo atto chiude il sipario – letteralmente – sul fantasma della divina Eleonora Duse, condannata a rivivere una specie di “eterno ritorno” sul palco (inclusa riconciliazione finale con un Gabriele in forma canina), mentre l’episodio centrale – quello che ha per protagonista Luisa Baccara – è l’unico in cui emergono sprazzi di cruda quotidianità. Luisa in sostanza appare prigioniera del roseto, cioè di tutto un immaginario erotico/seduttivo con cui Gabriele ha potuto prima farla innamorare, poi deluderla e abbandonarla. Le rose se le mangia, con autolesionismo.

E anche qui bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, anzi a Cleopatra quel che è di Cleopatra: tutto questo è stato possibile soprattutto grazie a Sara Bertolucci e Federica Guerra, due attrici la cui bravura e serietà sono attestate, prima di tutto, dal fatto che hanno accettato e capito la dimensione epica e cinematografica in cui io volevo calare il tutto. Pur sapendo che avremmo lavorato a dei videoclip la cui narrazione, anche nel loro essere non convenzionali, sarebbe stata necessariamente compressa in pochi minuti di durata, si sono preparate per i rispettivi ruoli con mesi di anticipo, tra prove costume, problemi organizzativi, riunioni e letture di approfondimento (come Il fuoco, che non è esattamente facilissimo).

Dopodiché, tutto è successo come accade su un set, anche se eravamo sei persone in tutto, tra le mie indicazioni spesso molto vaghe e la necessità di improvvisare: Federica ha saputo restituire una disperazione talmente tangibile che mi sembra che tutto l’episodio si regga, grazie a lei, su una tensione costante, mentre Sara ha costruito un personaggio imprendibile, una specie di sintesi iper-teatrale, tra mito greco e Novecento, da cui però a tratti emerge la donna che ripensa, si guarda indietro, ricorda, cammina orgogliosa e intangibile tra gli scheletri del proprio passato.

Posso chiederti a quali progetti futuri stai lavorando?

Intanto il live tour di Ultimo D’Annunzio sta per ricominciare con le date autunnali e ci tengo a dire che la video-trilogia è stata selezionata da festival nazionali ed extranazionali (Fox International Film Festival, Ostia International Film Festival, Rome Outcast Independent Film Award, Golden Giraffe Film Festival, 8 & Halfilm Awards).

Ma ci sono anche i nuovi progetti, a cui lavoro quotidianamente mentre porto avanti il mio lavoro di insegnante: com’è ovvio farò un nuovo disco, la cui composizione però è ancora allo stadio embrionale. Ma prima, tra poche settimane, uscirà per Edizioni Falsopiano Il piccolo diavolo e l’acqua santa, una mia monografia critica sulla parabola artistica di Roberto Benigni, preso a esempio di come un artista può cessare di essere dissacrante, e sul perché questo avviene.

Per dirla tutta, ho in mente anche un nuovo progetto cinematografico, di cui non voglio anticipare nulla se non che anche stavolta l’origine sarà un classico della letteratura. Mi piacerebbe molto parlartene in futuro…

Emanuela Borgatta Dunnett