
In questa piacevole chiacchierata, Giuseppe Grinza ci porta alla scoperta di un detective molto particolare: Don Prusòt, prete di paese che si trova – suo malgrado – al centro di esilaranti situazioni che lo portano a dover risolvere annose questioni, senza disdegnare finali a sorpresa e sorrisi a scena aperta.
Com’è nata l’idea di una serie di romanzi dedicati ad un investigatore così speciale?
Penso che siano i personaggi a cercare l’autore e non viceversa. Il personaggio di Don Prusòt è nato per caso in una notte insonne in cui leggevo un libro di tutt’altro argomento. Improvvisamente ho chiuso il testo, preso carta e matita e di getto è nato l’incipit del primo volume, guidato dal caso o se si preferisce dall’ispirazione. In quel momento non sapevo assolutamente dove sarei finito, tantomeno potevo immaginare che ne sarebbe nata una serie. Don Prusòt è di fede e appetito vigorosi, amante delle quiete digestioni e dei sonni tranquilli. Un prete, quindi, né santo né dannato: semplicemente normale, con tutti i pregi e i difetti dell’uomo qualunque. Scrivendo, mi sono accorto che ne veniva fuori la classica figura di prete della mia infanzia (i romanzi sono ambientati negli anni cinquanta e qualche sforatura nei sessanta), prete dalle caratteristiche religiose ben inquadrate in una solida visione tradizionalista e, quindi, teologicamente dogmatica. Attraverso la narrazione delle vicende (soprattutto disavventure) di don Prusòt emerge una critica all’impostazione religiosa di quell’epoca lontana, impostazione che ha segnato non solo quei tempi ma anche quelli successivi, cioè i nostri. Il tutto senza voler essere a mia volta dogmatico e, soprattutto, espresso coi toni rassicuranti e sdrammatizzanti dell’ironia.
Quali sono le caratteristiche che rendono la realtà di un paese di provincia perfetta per le trame costruite?
Chi esercita la passione della scrittura sa che non ci si inventa mai nulla, tutto è già scritto. Siamo solo gli esecutori materiali di una lenta ma progressiva evoluzione letteraria. Ho inquadrato le vicende di don Prusòt nel paesello di Pravorino, nome di fantasia che fa riferimento al mio paesello Natale, Poirino, collocato in alta Pianura Padana. Descrivo una realtà che conosco bene per averla vissuta: un paese dalle peculiarità comuni a tanti altri nell’Italia degli anni cinquanta del ‘900, con caratteristiche rurali predominanti. Oggi non esiste più né quel paese, né quel tipo di prete: tutto è cambiato, persino il panorama rurale. Non dico evoluto: proprio cambiato completamente. I paesi di quel tempo (con tutti i difetti e le limitazioni del caso) erano delle comunità, strette attorno a consuetudini, tradizioni, usanze e riti (anche religiosi). Oggi i nostri paesi non sono realtà comunitarie ma agglomerati di solitudini. Il pettegolezzo (descritto nei miei romanzi attraverso la figura scherzosa delle Pie Pepie) si è trasformato in maldicenza; il prete si è tramutato in impiegato del sacro; le feste patronali in una malinconica sequela di mercatini per la vendita di cianfrusaglie. Sicuramente a quei tempi si stava peggio, ma si era più spensierati e in tutti era radicato un profondo senso di appartenenza. Dico tutto ciò senza alcuna nostalgia del passato se non per la sua capacità di aggregare le persone.
Come si evolvono le qualità investigative di don Prusòt di romanzo in romanzo?
Don Prusòt non evolve: di romanzo in romanzo rimane sempre se stesso, monolitico, così come lo hanno plasmato in seminario. Cambiano gli episodi, le storie si arricchiscono di sempre nuovi personaggi, ma lui rimane tale e quale, ingenuo e fedele interprete di una teologia dogmatica che immobilizza nel tempo e nello spazio coloro che a lei si affidano. In realtà non è un prete investigatore. Il compito di indagare appartiene al maresciallo Contini, anch’egli figura di Pubblico Ufficiale dalle caratteristiche scomparse. Il mio prevosto non è padre Brown e nemmeno don Matteo della serie televisiva. Non è lui a risolvere i guai, piuttosto sono gli imprevisti della vita quotidiana a cercare lui, amante delle quiete digestioni e dei sonni tranquilli. Non somiglia neppure al Don Camillo dell’indimenticabile Guareschi, anche se qualche suo scontro col sindaco Pollone potrebbe innescare il paragone. Il titolo del primo libro (Don Prusòt e il delitto alla bocciofila, editrice Baima-Ronchetti) potrebbe trarre in inganno. In realtà si tratta di una serie di equivoci esilaranti risolti brillantemente dall’acume investigativo del maresciallo Contini. La figura del prete è però centrale perché da lui partono i guai che condizionano l’intera vita del paese e innescano le indagini condotte dai carabinieri. Fondamentale è anche la figura di Amelia, la fedele perpetua ottantenne, indiscussa capa del Club delle Pie Pepie, campionesse di pettegolezzo, vera e propria arma di distruzione di massa della altrui privacy.
Lei proviene da studi classici e da anni di insegnamento. Quali sono i suoi autori di riferimento? Pensa abbiano influenza sul suo stile letterario?
Non ho testi precisi di riferimento, sono un lettore onnivoro. Tratto la figura del prete e la sua collocazione teologica tradizionalista (con molte critiche sfumate) a causa dei miei studi classici, teologici e filosofici. Ho cominciato a scrivere il giorno che sono andato in pensione (65 anni compiuti) e mi sono dedicato alla scrittura per puro piacere personale e senza alcuna ambizione di entrare nell’Olimpo letterario. C’è chi gioca a bocce e chi coltiva l’orto: io mi dedico alla scrittura. Non mi considero (lo dico senza falsa modestia) uno scrittore in senso classico ma semplicemente uno che scrive. Poi, a forza di creare storie e riempire di manoscritti uno scaffale della mia libreria, ho elaborato un tocco personale che è comunque la sintesi di mille altri stili, tutti stupendi, interiorizzati inconsapevolmente in tanti anni di lettura. Lettura di libri, intendo: non certo quella veloce e distratta delle comunicazioni sul cellulare che caratterizzano la nostra stagione, capaci di sintetizzare (rendendolo banale) un sentimento magari profondo con una faccina sorridente. Perché la scrittura è principalmente figlia privilegiata (oltre che di una dote naturale di fondo) di tante letture e lo stile personale che la caratterizza ne è la sintesi. Devo anche aggiungere che la mia è una scrittura di restituzione, nel senso che ho avuto nella vita grandi maestri che mi hanno aiutato a crescere e a realizzarmi come uomo e, in vecchiaia, come uno che scrive restituendo qualcosa di ciò che gli è stato insegnato.
Quali sorprese ci attendono nell’imminente “Don Prusòt e l’Amelia innamorata”?
In questo terzo libro (altri sono già pronti e sonnecchiano sullo scaffale di cui sopra) tratto alcuni argomenti specifici travestendoli da (dis)avventure del nostro prete che va incontro a pericolosi sbandamenti teologici. Si comincia con la conquista dello Spazio da parte di Gagarin che afferma, tornato a terra, di non aver trovato lassù nessun Dio: immaginiamoci la reazione di don Prusòt, ferreo tradizionalista tridentino e pertanto ancorato ad una visione del cosmo ancora mesopotamica. Si prosegue con le seccature causate da un matrimonio contestato che ci fa precipitare in piena atmosfera manzoniana. Notare la copertina, realizzata dal pittore Silvio Valsecchi, con la passeggiata di don Prusòt – simile a quella di don Abbondio – e l’incontro con due affiliate del Club delle Pie Pepie invece dei due bravi. Compare pure un virus misterioso che mette in crisi sanitaria l’intera popolazione di Pravorino e risolta dall’acume (si fa per dire) scientifico del medico condotto. L’iniziativa di pubblicare un giornale locale è l’occasione per sfoggiare (da parte di alcuni esponenti del paese) la propria arte letteraria. Càpita pure che don Prusòt venga eletto Papa in un conclave presieduto direttamente dallo Spirito Santo: al risveglio – dato che di sogno si tratta – non resta che tirare un sospiro di sollievo. Infine, come se ciò non bastasse, ci si mette pure Amelia, la fedele perpetua, a complicare la vita del prevosto. Sarà difficile spiegarle, visto il suo quasi analfabetismo (fenomeno assai diffuso negli anni descritti) che tutti gli innamorati sono gelosi ma non tutti i gelosi sono per forza innamorati. Questo e altro compare nel prossimo libro. Ma, per restare fedeli allo stile pacato della narrazione, quando si ha sottomano un buon cappone arrosto e un fiasco di vin santo, la vita torna sempre a sorridere. Diventa addirittura paradisiaca se al prevosto è concesso di deliziarsi con la sua preferita e innocente trasgressione culinaria: le piccole pere (prusòt martin sec, in piemontese, da cui il soprannome del prevosto che in realtà si chiama don Giuseppe Cordero) cotte nel vino, profumate con un pizzico di cannella e chiodi di garofano, addolcite con zucchero di canna e, dulcis in fundo, una spruzzatina di cioccolata, raffinata variante della ricetta tradizionale.
Emanuela Borgatta Dunnett

