Intervista a Giacomo Maria Prati

Una feroce ossessione quella di Giacomo Maria Prati per Carmelo Bene e, come tale, salvifica.
‘Essere Carmelo Bene’ è un volume incandescente e delicato al contempo che ci ha consentito un approfondimento con l’autore, per un singolare viaggio nei meandri ‘beniani’.
Partiamo dal titolo (come si conviene): qual è il senso di ‘Essere Carmelo Bene’, a vent’anni dalla scomparsa?
Vent’anni non vuol dire nulla, l’ho scritto non ricordando questa ricorrenza, utile comunque per evidenziare come l’opera di Carmelo e Carmelo come Opera sia sempre fuori dal tempo, inattuale e, quindi, intensamente e ovunque presente. E’ nell’aria, come lui voleva. Spiriti dell’aria e fantasmi, spettri, più vivi di noi. Il titolo richiama deliberatamente un film originale e paradossale: Essere John Malkovic, in quanto l’immagine di aprire una porticina e di trovarsi nella stanza della mente di un’altra persona è un’immagine efficace per quello che mi è accaduto: lasciarmi parlare da Carmelo, immergermi nell’ascolto assoluto della Sua Opera per poi scrivere…quale atto impersonale, rituale, fantasmatico. Uno scrivere all’infinito, come un orale, un parlarsi addosso, mettendo l’ego in un angolino. Altrimenti la misteriosa porticina non si apre…
Bene sosteneva che la letteratura è morta con Joyce. Il teatro è finito con lui, invece?
Si e no. Da un certo punto di vista sì, in quanto Carmelo è l’artista assoluto, l’artista totale, l’artista della fine dell’arte e della fine dei tempi. Lo sapeva e visse così, niccianamente, il suo farsi arte, essere opera d’arte. Il suo “teatro non teatro”, molto filmico, sacra rappresentazione delle ragioni fisico-acustiche dell’odeon greco, è un “uscire dal mondo” (si veda: Elemire Zolla) che in quanto tale permane, non tanto quale modello (“nessuno è padre a nessuno”, diceva C.B.) ma in quanto unica e ultima visione sull’arte-vita che resta in Europa, in un’Europa che Carmelo vedeva già quale crepuscolo e deserto. Se Carmelo ebbe successo come “attore”, come “fenomeno da palcoscenico” non fù però al suo tempo mai preso veramente sul serio quale poeta-filosofo-intellettuale, “artista del pensare” quale era in grande profondità. Le sue illustrazioni della sua visione etico-estetica furono fraintese quali espressioni di narcisismo da star mentre erano un dire reale, autentico, assolutamente coerente. Il mio delirio scritto ma non testuale, “orale in pagina” dimostra proprio questo: perso Carmelo quale straordinario corpo-voce, irripetibile, solo oggi inizia a vivere quale visione ancora possibile, vivibile, attuabile. Non in altra via possiamo tornare alla vera arte, alla vera Opera, liberando l’espressione artistica dalla serialità escrezionale del commercio massivo.
‘Se l’attore fa il personaggio’ chi o cosa fa l’attore?
Questo paradosso beniano sintetizza perfettamente il paradosso esistenziale dell’”essere attore ma non personaggio” proprio di tutta la sua opera. Carmelo non vuole risolvere questo vuoto borderline dove la “voce-corpo sulla scena” non è il soggetto testuale né se stesso né un qualcosa di definito o definibile, specie se si rifiuta il teatro quale fiction, quale rappresentazione e mimesi. Carmelo assume quest’assenza quale fertile vuoto e deserto, quale informale buio dell’interno della maschera teatrale greca colta nella sua fisicità storica e non interpretante ma quale forma spersonalizzante. Il suo Amleto e il suo Achille sono sempre lingue e apparizioni di una dis-identità che non và risolta. Fughe dal kronos, volo verso l’atto aionico, assoluto, musicale. Attore quale operatore, quale soggetto bambino, oggettuale, capriccioso, diffuso, tirannico, inconsapevole.
Partendo da una domanda che appare, come potremmo delineare la carriera di Carmelo analizzando i suoi personaggi chiave?
E’ quasi impossibile se non per negazione e sottrazione: in Romeo e Giulietta elimina Romeo, nel Macbeth toglie la politica, in Riccardo III elimina le figure maschili, in Lorenzaccio il rumorista prende il posto del protagonista, in Amleto dà spazio al delirante Laforgue, in Otello toglie di scena Desdemona, nel Pinocchio elimina il finale dove il burattino diventa bambino, in Achille toglie tutto tranne la voce solitaria, unica, allucinante. Tutti i suoi corpi sono corpi-voci estremi, al limite, paradossali. Veri e propri cortocircuiti viventi. Lui opera come autore fra gli autori, fantasma tra fantasmi. Achille inizia a vivere con Carmelo Bene. Omero è finito, dimenticato, scacciato. Ora solo in Carmelo vediamo l’essenza eterna di Achille. E così con il suo Amleto: è più tragico, lirico e autentico dello stesso Amleto del Bardo inglese. Il suo Amleto non ha dubbi: rifiuta la Storia e i ruoli sociali, non vuole vendicare suo padre. Il suo Amleto vuole restare nella soglia fluida della non-scelta. Neppure lui sa se sia folle o sano, né gli interessa. Il suo meta-teatro, il suo “mettere in scena la recita della vita” è un rito di distanziazione dagli altri, di autoliberazione, come tutta la poetica beniana, non segue fini morali o di vendetta. Non c’è riconoscimento né destinatari o intenzioni. Tutte le sue opere sono opere di Carmelo Bene da…La provenienza viene sottoposta ad un processo vincente di obliazione.
La voce di Bene combacia perfettamente col termine inglese: ‘haunting’. Perché ci perseguita e ci delizia ancora oggi?
E’ una voce unica, fluida, profonda, fisica. E’ una voce-orchestra, un campionario vivo di innumerevoli strumenti musicali. Nel Manfred alla Scala lo si vede bene: Carmelo è un Uomo-Orchestra, che tiene testa a Shumann, ad un orchestra sinfonica. Và dal sussurro al grido, dal delirio al patetico. E’ pura ek-stasis, auto-alienazione, abbandono dell’Io perché trionfi solo la Phonè. Quando legge Pasternak vengono i brividi, ci si incanta senza neppure il bisogno di capire ciò che dice. Quando legge Dante, specie il canto V dell’Inferno, assai a rischio di retorica e quindi molto difficile da leggere, è sublime, epico, sovraumano. Anche qui inizia a vivere Dante, non prima. Viene partorito da Carmelo. Una Voce di cui abbiamo bisogno perché libera, informe, assoluta, immensa, metamorfica. Ci aiuta ad andare oltre la nostra auto-coscienza e auto-percezione, spesso falsa, riduttiva, mortifera.
Il tuo è per, tanti versi, un poema in cui canti Carmelo. Raccontaci i momenti salienti della tua ossessione! La tua anima incandescente e poliedrica è nota.
Il mio libro-orale viene dall’ascolto per sei mesi di quasi ogni dire di Carmelo, sulla scena e fuori dalla scena. Si tratta quindi di un flusso che viene da una possessione. Questo dirsi-addosso, questo parlare al Vuoto, nel Nulla si snoda attraverso 9 parole-chiave che sono 9 carismi di Carmelo quale Uomo-Opera: il rifiuto anarchico del potere, il tema della lingua e del linguaggio, la dimensione dell’atto e dell’artificio, il soggetto e il rifiuto dell’Io, la Macchina Attoriale, la Phonè, la Poiesis, il volo, e il cinema quale “cinematica”, flusso.
A quali progetti ti stai dedicando?
Carmelo mi ha ispirato molto: una tragedia greca dedicata alla follia di Oreste, un libro su Achille, una seconda mia nuova traduzione del Cantico dei cantici di Salomone in un italiano medioevale inventato, un libro su una nuova reinterpretazione del concetto di “anarchia”. Il mio sogno è collaborare con professionisti del teatro per mettere in scena il Tamerlano di Marlowe secondo la visione artistica di Carmelo. E’ possibile…
Emanuela Borgatta Dunnett