Alla luna bisogna credere per forza

Intervista ad Andrea Bosca

Foto Credit – F. Rabino

La Luna e i Falò (http://www.bamteatro.com/la-luna-e-i-falo/#tournee) portato in scena da Andrea Bosca, diretto da Paolo Briguglia per BAM Teatro e co-firmato dall’attore stesso, torna in scena.

Superbo atto unico, al servizio di un testo dai tratti ipnotici (giustamente definito ‘canzoniere in prosa’), magistralmente inscenato servendosi di continui punti di vista; durante il quale Bosca domina il palco ed ammalia la platea, padroneggiando una mimica struggente e una purezza dei gesti che definiscono lo spettacolo stesso, rendendolo eternamente suo.

La Luna e i Falò è un grido accanito, un insieme di frammenti corali artatamente uniti a formare un magma di eco epiche. Ambientato a ridosso della Liberazione nelle Langhe, è considerato il testo-summa nella produzione pavesiana e permette all’impeccabile Bosca di dar voce ad un vortice di personaggi e ricreare un intero paese. Da cosa dipende questa modernità? Come può Anguilla, il protagonista, rispecchiare tutti noi, ancora oggi? Ci riesce perché il nostro smarrimento è il suo ed il ritorno dall’America lo pone in un non luogo di cui è ponte. Torna poiché ha compreso che quelle ‘stelle non erano le sue’, che spesso non è il coraggio a farci partire, ma la disperazione.

La recente ripresa dello spettacolo, ci ha dato modo di intraprendere un viaggio in due tappe con Andrea Bosca, partendo dalle prime impressioni ad inizio 2020, fino ad arrivare alle odierne consapevolezze ed ai progetti futuri.

[La prima parte dell’intervista si è svolta al Teatro Alfieri di Asti, il 17 gennaio 2020].

Quali sfide avete incontrato nel portare in scena un testo, per il quale ti si richiede l’abilità di dar vita ad un intero paese?

Il lavoro di scrittura è partito un anno fa, conoscendo già il testo. Lavorando con la produzione, ci siamo resi conto immediatamente che lo spettacolo era già interessante di per sé, ma mostrava un problema drammaturgico: i personaggi, che si incontrano sempre per ricordare qualcosa, lasciano poco spazio all’immaginazione. Poiché la natura del testo è quella monologica, ci è parso giusto avere un contraltare artistico, così la produzione mi ha fatto incontrare Paolo Briguglia, di cui conoscevo l’operato ma che non avevo mai incontrato. È stata una grande mossa perché è diventato – insieme a me – l’altra anima della scrittura. Essendo siciliano, c’è una cosa che a parer mio avrebbe potuto capire bene non solo perché è colto ed è un teatrante, ma perché proviene da una terra che conosce la violenza, quindi è stato in grado di cogliere tutti i lati di questo lavoro che non è meramente letterario.

Abbiamo lavorato insieme per sei mesi e chiuso la prima versione ad agosto. Dopodiché, io sono venuto in vacanza nell’astigiano (come faccio sempre) e, circondato da questi luoghi, ho cominciato a studiare a memoria il testo. Un lavoro lungo, durante il quale ho rivisto Paolo ed abbiamo intrapreso un percorso itinerante come quello di Anguilla. La difficoltà interpretativa maggiore è stata quella di mantenere un percorso organico all’interno dello spettacolo, che risultasse vero soprattutto dal punto di vista del tempo, poiché il libro è scritto in maniera a-temporale e a teatro questo non è possibile. Per questo motivo, abbiamo dovuto scomporre l’ultima parte, trovare il senso di un personaggio che arriva ed agisce per un’ora e venti, per poi andarsene. Questa è stata la seconda sfida relativa al lavoro drammaturgico.

Lo spettacolo deve essere fruibile anche a chi non ha letto il libro, ovviamente…

Certo, noi dovevamo rendere questa storia intellegibile a chiunque, senza averlo letto per forza, altrimenti avremmo perso in partenza. Il pubblico deve entrare in sintonia con queste figure così varie e frammentate. È una struttura complessa, che ci ha portato a dover simulare l’intera piazza di un paese, il tutto continuando a guardare la gente negli occhi, parlando cuore a cuore con le persone (come piace a me), per consentire loro di entrare nella storia piano piano.

Com’è stato trovarsi al cospetto di un testo del genere, con un sostrato lirico così evidente?

Paolo vuole sempre essere chiaro, avendo grande senso musicale, ed io tengo molto alla poesia di alcune parti, perché si tratta davvero di un canzoniere in prosa con elementi poetici puri (anche quando a parlare è un contadino); perciò il lavoro duro è stato fatto sui tagli anche se abbiamo sempre dialogato, trovando una sinergia importante.

Ci sono stati momenti specifici in cui tu avresti voluto il testo in un modo e lui in un altro?

Nient’altro che micro momenti, in quanto Paolo mi ha letteralmente cucito addosso lo spettacolo, riprendendo ogni punto e rimanendo fermo e determinato. Quando qualcosa non andava, me l’ha fatta riprovare e l’ho apprezzato molto, perché è necessario rendere lo spettacolo al massimo delle sue potenzialità.

[La seconda parte dell’intervista ha avuto luogo al Teatro di Bosconero (TO), il 13 novembre 2021].

Dal tempo intercorso dalla prima de La Luna e i Falò, com’è cambiato il tuo rapporto con il testo che porti in scena?

Sono felice di essere di nuovo in tournée con lo spettacolo, perché – dopo la pausa forzata – inizia a rodare davvero, grazie all’impegno nell’adattarlo ogni volta e rivederne il testo, sempre nel massimo rispetto della versione concordata con il regista Paolo Briguglia. E’ un’opera che sento vicina alla mia vita e che amo proprio perché mi dà la possibilità di essere autore anche nel modificarlo. Ovviamente, ci sono parti che prima del Covid mi parlavano di più, ed altre che – dopo – hanno assunto un risalto maggiore.

Il senso di comunità che vacilla, ad esempio, ed il rapporto col femminile (che sento con grande delicatezza). Si parla, infatti, di persone travolte dalla propria storia e dai propri desideri, che non vanno giudicate e, nella mia immaginazione, percepisco di partecipare alla vita di ognuna di loro. Prima sentivo molto Anguilla, il suo ritorno, la sua mancanza da casa… mentre, ora, avverto anche gli altri allo stesso livello, come se l’intera storia si dipanasse dentro di me. Mi commuovo al cospetto dei personaggi femminili così allegorici e puri ed alle loro scommesse di vita mancate o ripensando alla prima parte ed a quei quarant’anni che ho sempre sentito di avere.

Si tratta di una storia con possibilità altissime, che parla con la voce di un ragazzo che non ha studiato, ma ha girato il mondo e che mi ricorda le parole di Majakovskij: ‘…io imparavo la geografia coi fianchi…’., rispecchiando il mio desiderio di creare, dopo aver visto tanto, perché talvolta l’arte e la vita collimano e si avvicinano alla tua storia personale. Occorre saper non mischiare troppo le carte ma anche capire che un ruolo arriva in un momento specifico, perché tu risuoni di quella determinata energia.

Tuttavia, il romanzo di Pavese non è considerato un testo di facile approccio e credo che questo spettacolo consenta di accedervi più agevolmente, poiché penso e parlo come Anguilla. Dandogli voce lo si comprende di più e ci vuole un interprete che sappia palesarne il pensiero, capendo che certe cose vanno dette in un determinato modo. Quando entri davvero nella storia, tutte le azioni che aveva vissuto e sentito le devi riportare (ed io quel parlato l’ho ascoltato anche da persone a me vicine, di estrazione contadina), altrimenti lo si riduce ad un’operazione puramente letteraria o difficile da cogliere.

Pavese ha messo tanta vita in questa storia, dando molto, senza nascondersi ed affrontando temi importanti: la bellezza di vivere, l’amicizia, la condivisione, l’amore per una persona che ti fa battere il cuore; fatti vissuti da un alter ego forse più forte o solo più semplice di lui, per certi versi. Laddove non era ancora possibile una vera introspezione, sopperiva con la scrittura.

Il vantaggio di poter compiere un lavoro dentro di noi e migliorare, oggi lo abbiamo e, anche se è vero che le nostre stagioni ci definiscono e siamo quello che abbiamo vissuto, occorre – altresì – ‘maneggiare’ quelle stagioni per consentire che la nostra parte vitale che ama e vuol lasciare un segno, viva.

Oltre al teatro, in quest’ultimo anno e mezzo, ti sei dedicato a svariati altri progetti. Ce ne parli?

In questo momento sono nelle sale con il nuovo film di Costanza Quatriglio: Trafficante di Virus con Anna Foglietta, che riprende la storia di Ilaria Capua ed è stato presentato al Torino Film Festival (N.d.R. in questi giorni al cinema come evento speciale e, successivamente, su Amazon Prime). Dopodiché, uscirà un lavoro dedicato a Marco Pannella, per la regia di Mimmo Calopresti.

3 Caminos, invece, è una serie Amazon spagnola ed internazionale, che spero esca presto anche in Italia. Ho imparato lo spagnolo e recitato in inglese, con attori magnifici, con i quali abbiamo cementato un’amicizia anche nella vita reale. Ricopro un ruolo da protagonista che mi ha consentito di lavorare tanto sull’evoluzione del personaggio, poiché Luca cambia profondamente, di episodio in episodio. Negli anni mi sono evoluto in questo senso e ho capito di voler entrare in una connessione molto più profonda coi personaggi che interpreto, scoprendoli con grande onestà. Penso che tutti i lavori che ami davvero dovrebbero essere percepiti come esperienza di vita, un’occasione per creare qualcosa di significativo con gli altri, che ti approfondisca come persona.

Credo che nelle mie corde ci sia una vena romantica e che in ognuno di noi conviva una parte che vuole creare ed una che vuole distruggere. Le conosco entrambe e, benché abbia scelto da che parte stare, non è detto che l’altra debba essere demonizzata. I personaggi della serie sono intessuti proprio di questa ambivalenza: il senso di trasformazione che vivono grazie agli altri, al cammino e ad un’amicizia importante, la quale dona loro un senso di speranza anche nella perdita e nell’ineluttabile. Io, ad esempio, non posso dirti di essere bravo nelle scelte definitive, ma quando mi arrivano progetti come questo, mi ci confronto anche se è difficile. E’ l’unica possibilità che tutti abbiamo al cospetto dell’inevitabile: cercare di crescere senza scappare, affrontandolo e chiedendosi cosa stia veramente accadendo, aprendo gli occhi sulla realtà pur senza smettere di sognare ed immaginare, lasciando che i due concetti si muovano all’unisono; altrimenti, vivremmo vite basiche o staccate da terra e non credo sia questo il nostro compito.

Emanuela Borgatta Dunnett

Photo Credit – F. Rabino / BAM Teatro
Photo Credit – F. Rabino / BAM Teatro